Perché continuare anche quando tutto sembra troppo grande per le nostre forze
La sera di primavera era già tiepida e nel tunnel vicino alla stazione gli uomini, arrivati da poco dall’Eritrea, dal Pakistan, dall’Afghanistan, stavano sdraiati sui loro materassi di fortuna senza coprirsi la testa come hanno fatto per tutto l’inverno.
Ciascuno dei volontari dell’Unità mobile della nostra associazione parlava con attenzione con una persona diversa; ciascuno di questi “senza fissa dimora” ci raccontava una storia, un bisogno forte, inciso, scavato nella carne. Ci parvero particolarmente disperati, quella sera.
Forse per un nostro umore malmesso, tutto il giro nella nostra zona della città ci sembrò colmo di disperazione. Avevamo incontrato, come sempre, ogni genere di storia, accenti milanesi e italiano con inflessione dell’Africa francofona, inglese dell’Asia, italiano con accenti balcanici.
Al termine del turno una delle volontarie mi disse: “In sere come queste ho l’impressione che il nostro lavoro sia così piccolo e quasi impotente, ciascuno di loro ha così tanto bisogno, e noi riusciamo a fare così poco”.
Sofferenze e ingiustizie: siamo impotenti?
Già, questo del “riusciamo a fare così poco” è un pensiero che attraversa le riflessione di molti di noi: la sofferenza e l’ingiustizia sono così grandi e così complesse, le persone ai margini della vita così tante da farci sentire impotenti, a volte persino irrilevanti.
Eppure, tutti noi continuiamo.
Cosa ci fa superare il timore che la nostra attività di volontari, fatta di piccoli gesti, sia irrilevante, sia troppo modesta per lasciare il segno, per migliorare la vita delle persone che aiutiamo?
Cinque motivi per tenere duro
Ci sono almeno cinque motivi, buoni argomenti, per non farsi prendere da questa sensazione che “tutto sia inutile” (potremmo comunque trovarne anche altri da aggiungere alla lista, ma mi limito a cinque).
–Il primo riguarda il fatto che siamo tanti. Siamo tanti nella nostra associazione e siamo tanti in città, sono tante le associazioni di volontariato in tutto il paese, e anche nel mondo. Se guardiamo da questa prospettiva, vediamo che i piccoli gesti di ciascuno di noi si sommano ai piccoli gesti di molti altri. È il principio sociale dell’azione molecolare: se in tanti facciamo qualcosa, anche di piccolo, il risultato può essere qualcosa di grande.
–Il secondo motivo è che oltre essere tanti siamo d’esempio per altri; per altri volontari o comunque per cittadini che vedendo le nostre attività, offrono denaro, collaborazione, sorrisi. Non ci sentiamo mai soli, la rete della solidarietà si estende.
–Il terzo motivo per continuare ad agire a sostegno di chi è in difficoltà, senza temere che sia irrilevante quel che facciamo, è che oltre che tanti, siamo anche organizzati. Vale a dire: siamo una rete diffusa sul territorio, ciascuno ha un compito e le azioni vengono coordinate. Per capire basta osservare la nostra realtà all’interno della quale operiamo: c’è chi presta assistenza medica e dentistica, chi cerca di risolvere le pratiche legali, chi distribuisce i pasti nelle mense, chi raggiunge la sera i più diseredati che non hanno una casa dove ripararsi, chi aiuta nella ricerca di un lavoro, di un alloggio. E di iniziative come le nostre ce ne sono tante, sparse ovunque.
–Il quarto motivo è che ogni incontro con una persona che aiutiamo è un riconoscimento della sua umanità, del suo essere una persona con una storia, dei pensieri, dei desideri. Anche solo per qualche minuto la nostra relazione contribuisce a creare un tessuto comune sul quale ci riconosciamo reciprocamente e nel quale la sofferenza può essere alleviata.
– Infine ci sono l’etica e la giustizia. Il tessuto di relazione è reso possibile dalla compassione. La com-passione è l’emozione della cura. Come ci ha insegnato la filosofa americana Martha Nussbaum, con la compassione diventiamo consapevoli della immeritata sofferenza di un’altra persona ma siamo consapevoli anche della nostra vulnerabilità. La compassione estende i confini del nostro sé ma sottolinea anche la differenza fra il nostro sé e l’altro. Estende il nostro circolo di interesse oltre le nostre relazioni affettive abituali, e ci rende anche consapevoli che la sofferenza immeritata dell’altro è una questione di ingiustizia.
In fondo, ogni gesto di cura di un volontario è anche una richiesta di maggiore giustizia sociale, economica, di diritti.
Per esempio, sappiamo che rendere disponibili alloggi, piccoli appartamenti, a prezzi molto bassi, ad affitto garantito dai comuni o dallo Stato permetterebbe a molte persone, che svolgono lavori precari e saltuari e sono costrette a vivere “senza fissa dimora”, di vivere in case con i servizi necessari. Per queste persone sarebbe una totale trasformazione della vita. Ecco, quando ci avviciniamo a una di queste persone sappiamo qual è lo sfondo sociale di ingiustizia. Come lo sappiamo quando parliamo con un giovane migrante che senza il riconoscimento dello status di rifugiato non può accedere a molti dei servizi che pure sono disponibili in città: pensiamo allora alla complessiva questione dell’accoglienza e delle condizioni di illegalità nelle quali queste persone sono costrette. E quando aiutiamo un disabile sappiamo che le barriere architettoniche limitano i suoi diritti a una vita normale e che la rimozione di queste barriere dovrebbe essere oggetto di ogni politica di gestione degli spazi pubblici e privati.
Insomma, il volontario è anche un soggetto che contribuisce a guidare la società nella quale vive verso una maggiore giustizia, concreta, qui ed ora.
Luigi Gavazzi