Nelle ultime settimane la città – tornata in zona rossa – è percorsa la sera, in alcuni quartieri, da piccoli gruppi di giovanissimi uomini dai volti stanchi in cerca di un rifugio dove dormire. Se ci si avvicina e si prova a parlare con loro si scopre che sono arrivati da poco dall’Afghanistan. A volte fra essi qualcuno vi dice che è pakistano. Sono gli ultimi figli delle migrazioni dall’Asia povera e martoriata che dopo un lungo peregrinare su mezzi di fortuna e soprattutto a piedi, arrivano in Turchia e poi risalgono i Balcani e il terribile inverno di quelle terre, fino al confine italiano.
Se chiedete l’età mostreranno subito una certa diffidenza e reticenza, restano vaghi. Se chiedete dove dormono vi indicheranno distratti qualche luogo non identificabile o una delle gallerie che passano sotto un tratto di ferrovia.
Tuttavia, davanti alle domande giuste – quando li raggiungiamo con l’Unità mobile offrendo loro un sacchetto col cibo, un bicchiere di tè caldo, della biancheria nuova e dei vestiti – sorridono; sono pronti a spiegare e raccontare alcuni pezzi della loro storia. Molto in questi casi dipende dalle domande che si pongono a questi ragazzi. A volte una domanda è capace di aprire un piccolo taglio nella tela di diffidenza e attenzione circospetta e se si ascolta si intravede un po’ della loro anima.
Alcun giorni fa per esempio, uno di loro, Asif, ci ha mostrato la scarpa destra, tagliata nella parte di gomma tra la tomaia e la suola. Calzava delle scarpe di un noto marchio sportivo ma ormai logore, storte, con la suola quasi appiattita. Cercando sul furgone un paio per sostituire quelle calzature uno di noi ha chiesto come si fosse ridotto le scarpe in quello stato. A prima vista sembra una domanda banale, soprattutto se posta a una persona che, per quanto ne sappiamo, è stata in viaggio per mesi e mesi.
Eppure a questa domanda Asif, che ci aveva raggiunti per risolvere alcuni problemi vitali – nutrirsi, coprirsi, cambiarsi i vestiti – si è come rilassato per qualche minuto. E in un inglese affaticato e impreciso, frammisto a qualche parola di italiano (non ha mai usato “shoes”, per esempio, ma sempre “scarpe”) ha raccontato un giorno nella vita di un emigrante che attraversa un paese ostile dove fa freddo e temi per la tua vita e ti si gelano le mani e i piedi.
Per qualche minuto, sapendo che quel che raccontava risultava impreciso perché fatichiamo a trovare un linguaggio in comune, Asif ci ha però aperto un piccolo orizzonte della sua vita, ha abbozzato un breve segmento di autobiografia davanti ad alcuni sconosciuti che lo guardavano negli occhi e si dimostravano disposti ad ascoltarlo.
Fra i molti insegnamenti che si ricavano da questi incontri, mi ronza sempre in testa l’insegnamento sull’importanza delle domande che si pongono alle persone che incontriamo e la forza per ciascun umano dell’esperienza del racconto della propria storia; e poi della bellezza di avere qualcuno disposto a darti retta, a intrecciare un dialogo nel quale l’interesse e la cura per le proprie storie e le storie dell’altro si sostengano a vicenda.
Il secondo insegnamento, altrettanto importante, riguarda proprio la disponibilità a raccontare anche la nostra storia a chi ci sta raccontando la propria. In questo modo il racconto si fa dialogo e la relazione, seppur breve e limitata, si fa più stretta, si inietta fiducia e disponibilità reciproca a prestarsi cura. Si diventa un po’ più simili, ci si affida. Per questo vorremmo sempre anche trovare il tempo per parlare di noi in queste sere, anche solo un minuto, perché è questo il modo per aprire il dialogo.
Sono insegnamenti sempre importanti, per tutti; ma sono particolarmente preziosi per chi, da volontario, avvicina persone con vite difficili e di sofferenza; persone che hanno vissuto e vivono tutt’ora in modo precario; vite nelle quali la stanchezza e la lotta per sopravvivere esigono tutte le energie. Raccontare le rispettive storie ci rende per un momento più vicini, più simili; non risolve certo i problemi di chi soffre ma permette a entrambi di guardarsi “da fuori” per un momento, di dare configurazione e trama emotiva alla propria vicenda e a quella dell’altro. Le storie di vita, come ha scritto lo psicoanalista Vittorio Lingiardi a proposito di un libro prezioso come Le storie che curano di James Hillman (Raffaello Cortina Editore), curano “perché, abituandoci alla convivenza tra immaginazione e memoria e sviluppandosi nell’ascolto danno dimora alla nostra vita. La dimorano nella storia”. Chiudo segnalandovi un altro libro che si occupa di questo tema: Raccontarsi: l’autobiografia come cura di sé (Raffaello Cortina Editore), scritto dal filosofo Duccio Demetrio.
Luigi Gavazzi