Una sera, dell’autunno del 2019 – prima dei mesi del Covid-19, dunque – camminavo con un altro volontario per avvicinarmi a una delle persone che nella nostra città vivono per la strada, uno dei numerosi “senza fissa dimora,” come vengono definiti. Una delle persone che le Unità mobili, anche le nostre della Fondazione Fratelli San Francesco, provano a sostenere con un po’ di attenzione, di ascolto, di cura, una coperta, un po’ di cibo e di tè caldo. Era una via elegante nei pressi di Porta Venezia e, dentro la nicchia di una delle vetrine di una banca, l’uomo verso il quale ci stavamo dirigendo si riparava sdraiato in un sacco a pelo e, con un po’ di intralcio causato dai guanti, teneva un romanzo che mostrava di leggere avidamente. Il lettore-di-strada, tipologia di lettore non così rara nella nostra città, ci salutò cordialmente, accettò di buon grado il sacchetto con un po’ di cibo che gli offrimmo, e soprattutto dimostrò di gradire le nostre domande sul romanzo. Un romanzo di un noto scrittore sudamericano, Mario Vargas Llosa, premio Nobel per la letteratura nel 2010; un romanzo avventuroso e complesso, bellissimo: La guerra della fine del mondo. Un romanzo che avevo letto almeno due decenni prima e del quale conservavo un ricordo di grande interesse e piacere. Bastò una domanda su quella lettura per rendere il nostro lettore-di-strada loquace e disponibile a parlare non della sua condizione o delle sue necessità immediate, ma di quello che quella lettura gli stava donando. E attraverso la storia di quella lettura cominciò fra noi un reciproco scambio, anche se breve, di sentimenti ed emozioni suscitati da una passione comune generata dal racconto di una storia. Racconto che in pochi minuti tracimò, quando il lettore-di-strada si mise a narrare, per cenni rapidi, una sua avventura di vita nell’America latina. Stava avvenendo, in modo spontaneo e magari effimero, ma emotivamente significativo, un riconoscimento reciproco in quanto lettori, in quanto persone disposte a parlarsi e ad ascoltarsi. La lettura è una forma di trascendenza individuale anche – e forse soprattutto – perché ci spinge alla condivisione del pensiero che suscita, ci proietta in modo consapevole nella relazione con l’altro. Mentre leggiamo e quando chiudiamo il libro e pensiamo a ciò che abbiamo letto, siamo pronti a un dialogo; il pensiero è pronto per essere comunicato, desidera essere condiviso. Ciò vale anche per i casi nei quali ciò avviene solo con se stessi, con la specie di altro io che abita in noi e con noi. Mi azzardo però a dire che l’impossibilità di comunicare questo pensiero, la mancanza di uno o più persone che lo ascoltino e entrino in dialogo con esso, è una forma di esclusione sociale, o forse, meglio, è un indicatore di esclusione sociale. L’esclusione sociale è una condanna. Essa ci dice molto anche sulla lettura e reciprocamente la lettura ci dice alcune cose sull’esclusione sociale. Pochi leggono fra le persone che sono escluse da relazioni sociali significative; e coloro che leggono ma sono esclusi da relazioni sociali significative non hanno nessuno con cui parlarne, e probabilmente ne soffrono, tanto è vero che spesso cercano un interlocutore, addirittura un co-lettore. (Ciò è ovviamente un’affermazione diversa dal dire che chi non legge non ha relazione sociali significative, affermazione completamente fuori luogo). Mi piace pensare che riconoscere un lettore fra chi è in difficoltà, sia una possibile via per stabilire con questa persona un dialogo, a partire dal suo riconoscimento come interlocutore attorno a una passione comune, una passione di cittadinanza. Proviamo a pensare alle persone che incontriamo come a lettori pronti a raccontare le loro letture, o anche a persone alle quali raccontare le nostre letture. Raccontare e ascoltare le storie è attività connaturata agli esseri umani, forse potremmo davvero trasformare questa consapevolezza in uno strumento di relazione solidale. Luigi Gavazzi, volontario dell’Unità mobile